Rifiuti tessili: dall’emergenza ambientale alle soluzioni circolari - Leonardo Academy

Rifiuti tessili: dall’emergenza ambientale alle soluzioni circolari

L’industria tessile ha un forte impatto ambientale lungo tutto il ciclo di vita dei prodotti fino ai rifiuti tessili. La fase di produzione di fibre e tessuti richiede enormi quantità di acqua, terreno, materie prime ed energia. Si stima, ad esempio, che per realizzare un paio di jeans occorrano circa 7.000 litri d’acqua, mentre per una semplice t-shirt ne servono 2.700 litri, equivalenti al consumo di acqua potabile di una persona in 2,5 anni. Gran parte di questa impronta idrica e dei pesticidi impiegati avviene nelle coltivazioni di cotone e altre fibre naturali. I tessuti sintetici come il poliestere (che costituiscono circa il 60-70% dei materiali tessili oggi, essendo derivati dal petrolio) richiedono invece ingenti quantità di energia e rilasciano gas serra durante la produzione.

Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, il consumo tessile nell’UE nel 2020 ha comportato per ogni cittadino un utilizzo di 9 m³ di acqua, 400 m² di terreno, 391 kg di materie prime e un’impronta di circa 270 kg di CO₂. A livello globale, il settore moda è responsabile di circa il 10% delle emissioni di gas serra totali, un contributo climatico significativo quasi al pari di quello dei voli internazionali e della navigazione marittima messi insieme.

Anche la fase di utilizzo e smaltimento dei rifiuti tessili presenta criticità. Durante il lavaggio dei capi sintetici vengono rilasciate microfibre plastiche: i tessili sarebbero responsabili di circa il 35% delle microplastiche primarie che inquinano gli oceani. A fine vita, se gli indumenti non vengono recuperati, possono finire negli inceneritori (emettendo ulteriori gas serra e inquinanti) o in discarica. In discarica i tessuti sintetici non biodegradabili persistono a lungo, mentre quelli naturali possono degradarsi lentamente generando percolati e metano. Oltre all’ovvio spreco di risorse preziose, c’è il rischio di contaminazione ambientale: i coloranti e trattamenti chimici presenti nei tessuti possono rilasciare sostanze nocive nel suolo e nelle acque sotterranee.

Attualmente si stima che quasi 87% dei rifiuti tessili in Europa venga smaltito in discarica o incenerito, perdendo così il valore materiale ed energetico dei prodotti. La catena del fast fashion accentua il problema anche a monte: tra il 4% e il 9% degli indumenti prodotti non viene mai venduto e viene distrutto senza essere utilizzato. Questo significa che centinaia di migliaia di tonnellate di abiti nuovi (stimati tra 264 mila e 594 mila tonnellate ogni anno in Europa) finiscono direttamente tra i rifiuti, aggravando ulteriormente l’impatto ambientale complessivo del settore.

Normative recenti e prossime direttive europee sui rifiuti tessili

Di fronte a questa situazione, le istituzioni stanno intervenendo con nuove normative volte a promuovere la circolarità nel settore tessile.

In Italia, come accennato, è entrato in vigore l’obbligo di raccolta differenziata dei tessili a partire dal 2022 (introdotto con il D.Lgs. 116/2020 in recepimento alle direttive europee). Ciò fa dell’Italia un paese apripista rispetto alla scadenza fissata dall’UE, che richiede il riuso/riciclo dei tessili in tutti gli Stati membri entro il 2025. Dal 1° gennaio 2025 infatti in tutta Europa sarà operativo l’obbligo di raccogliere separatamente i rifiuti tessili (abiti, tessuti, scarpe), uniformando quanto l’Italia ha già anticipato. Questa misura intende facilitare il recupero di materiali e ridurre lo smaltimento indiscriminato. Sul fronte europeo, va menzionata anche la Strategia UE per il Tessile Sostenibile e Circolare, adottata nel 2022, che prevede un insieme di misure per rendere i prodotti tessili più durevoli, riparabili e riciclabili, promuovendo modelli di business circolari.

Nell’ambito di questa strategia rientra il nuovo Regolamento Ecodesign per i prodotti sostenibili, che per il settore moda ha già introdotto un divieto significativo: bandire la distruzione dei capi invenduti. Dal 2023 in Europa è vietato per le aziende distruggere abbigliamento e calzature invenduti (resi, rimanenze di magazzino), e il divieto verrà gradualmente esteso anche ad altri prodotti. Questa norma mira a eliminare la pratica, fin’ora comune, di smaltire stock nuovi per far spazio alle collezioni successive, costringendo invece a trovare soluzioni di re-immissione sul mercato (sconti, donazioni, riciclo). Le politiche si stanno dunque muovendo sia sul piano preventivo (progettare prodotti più sostenibili e ridurre gli sprechi alla fonte) sia su quello gestionale (migliorare raccolta e riciclo), con l’obiettivo di trasformare i rifiuti tessili da problema a risorsa.

Esperienze virtuose e buone pratiche

Sebbene la sfida sia enorme, non mancano esempi virtuosi di come si possa gestire meglio il ciclo dei rifiuti tessili, dal livello locale a quello industriale.

In Italia esiste una lunga tradizione di recupero nel settore tessile: il distretto di Prato da oltre un secolo ricicla gli stracci di lana trasformandoli in nuovi tessuti (il famoso “cardato” pratese), un’attività che ha anticipato di decenni i moderni concetti di economia circolare. Oggi aziende di Prato come Manteco sono all’avanguardia nel produrre filati rigenerati di alta qualità da vecchi indumenti, dimostrando che riciclare è possibile e può essere anche economicamente vantaggioso.

Un altro esempio storico sono le cooperative e organizzazioni non-profit che si occupano di raccolta e selezione degli abiti usati in molte città italiane. La più grande è Humana People to People Italia, che opera tramite oltre 5.000 contenitori stradali gialli: ogni anno Humana raccoglie oltre 21.000 tonnellate di abiti usati, li seleziona accuratamente e li reintroduce sul mercato attraverso i negozi Humana Vintage e Humana People. Questo sistema genera benefici ambientali (riducendo rifiuti e emissioni: 5 kg di vestiti donati fanno risparmiare 30.000 litri d’acqua) ma anche sociali, finanziando progetti di solidarietà in Italia e nel mondo e creando lavoro nell’industria del riuso.

Allo stesso modo, molte Caritas diocesane e associazioni locali raccolgono indumenti usati per destinarli ai bisognosi o venderli a peso a operatori del recupero: un capo donato a un’iniziativa solidale può aiutare persone in difficoltà e insieme evitare impatti ambientali.

Tra le aziende della moda iniziano a diffondersi iniziative di responsabilità: diversi marchi offrono sconti o incentivi ai clienti che riportano in negozio i vestiti usati (ad esempio H&M e Intimissimi hanno da tempo programmi “take back” con cassonetti in store). Alcuni brand pionieri integrano il concetto di circolarità nel loro modello di business: Patagonia incoraggia la riparazione dei capi con il programma Worn Wear, Levi’s vende jeans di seconda mano e garantisce riparazioni a vita in alcuni flagship store, mentre brand di lusso come Gucci e Valentino hanno lanciato collezioni “sustainable” e servizi di rivendita dell’usato autenticato. Significativo è anche l’impegno di gruppi internazionali: Inditex (proprietario di Zara) e H&M Group stanno investendo in tecnologie di riciclo e materiali innovativi, anche a seguito delle normative stringenti che li costringeranno a ripensare il modello fast fashion. In prospettiva, la collaborazione tra pubblico e privato sarà essenziale: alcuni comuni virtuosi, ad esempio, lavorano con startup tecnologiche per migliorare la tracciabilità dei rifiuti tessili (come il progetto Traccia-TO a Torino), mentre consorzi come Ecotessili (nato dall’esperienza di Ecolight) stanno sviluppando piattaforme nazionali per ottimizzare la gestione del tessile post-consumo.

Articoli correlati